NELLA PUNTATA PRECEDENTE: Nonostante la nostra epoca sia contraddistinta dal MACHECAZZ piu’ assoluto, il cinema Horror contemporaneo diventa Elevated e scodella Margarini invece di fare il punto della situazione. La critica – che non vede di buon occhio la cialtronaggine del cinema di genere – ne e’ lieta.
IL TONGUE POPPING DI ALYSSA EDWARDS
A parte l’aria esangue da film drammatico pretenzioso ricco di sovrumani silenzi e profondissima rottura di coglioni, l’altro grande comune denominatore di tutti i Margarini sta nella tendenza ad “ispirarsi” a titoli Horror storici di estremo successo. In ognuno di questi film aleggiano pesanti le presenze di svariati Mostri Sacri lasciati a domandarsi con aria esterrefatta cosa ci facciano frischi come loro in un postaccio come quello.
Se e’ pur vero che non c’e’ nulla di nuovo sotto al sole, e che cogliere dall’albero del gia’ visto sia un processo piuttosto inevitabile; converrete con me che esiste una sottile differenza tra il piluccare vezzosamente dalla tavola imbandita del materiale altrui, e strafogarcisi tipo zio Nicola con la tuta in acetato Legea alla Prima Comunione della piccirilla.
I Margarini sono zio Nicola.
I Margarini ingurgitano intere scene, e/o lo stile, e/o gli elementi iconici degli altri, e li rigozzano cosi’ come li hanno trovati per giustificare la propria appartenenza al genere Horror.
Per lo stesso motivo le scene di violenza saranno sempre brutalmente esplicite. Per lo stesso motivo le rappresentazioni del “male” saranno quasi esclusivamente sovrannaturali.
L’Horror e’ troppo vasto e vario per essere definito con precisione, ma esistono pur sempre certe aspetti universali che lo rendono distinguibile dagli altri generi, e il principale in assoluto vede l’orrore quale forza propulsiva della storia.
Se la trama riesce a procedere nonostante l’assenza di questo elemento, il film che state guardando non e’ un Horror: senza Xenomorfo non c’e’ “Alien” (1979), senza la psicosi esacerbata dal sovrannaturale non c’e’ “The Shining” (1980). E senza il diavolo, quel che resta de “The Exorcist” e’ una giovinetta in preda a una sindrome premestruale brutta assai.
Qualsiasi film puo’ sfoggiare delle componenti paurose per donare alla trama una tinta dark. Ma in un Horror quelle componenti sono il film.
Dunque quando ci si trova di fronte un sotto-genere che non farebbe neanche un plisse’ davanti alla totale bonificazione degli elementi Horror presenti nelle sue pellicole, a me scatta di default la faccia sospettosa di Fry.

La facilita’ con cui i Margarini sarebbero in grado di riciclarsi come polpettoni drammatici senza compromettere l’intreccio e’ palese, tanto quanto il perche’: l’Horror presente in quel genere di film non e’ altro che una patina, per di piu’ familiare, in quanto saccheggiata senza rielaborazioni di sorta da titoli celebri.
Se non avete gia’ fatto hara-kiri per sfuggire ai miei blateramenti tipo i vicini di posto di Ted Striker in “Airplane!” (1980), penso sia chiaro a questo punto come mai la corrispondenza di amorosi sensi tra la critica e queste pellicole non sia esattamente fonte di incontrollabili moti di stupore.
L’HORROR MARGARINO™ e’ in effetti l’unico Horror che la critica puo’ farsi piacere: esteticamente inappuntabile, serioso, e del tutto docile nelle componenti “paurose”, il mix e’ cosi’ dirompente da far scattare la nobilitazione istantanea, e da persuadere gente che si suppone sappia il fatto suo a glissare su brutture altrimenti imperdonabili, tipo le strombettanti magagne di sceneggiatura, e la fuffa pseudo-filosofica da nonna Maria quando esagera un po’ col limoncello al veglione di Capodanno.
Non so esattamente per quale motivo io abbia gettato la mia giuvinezza a guardare il “Dekalog” (1989) di Kieslowski piuttosto che pomiciare ai giardinetti come le persone normali, ma di sicuro non e’ per sentirmi dire che una guaglioncella che imita il Tongue Popping di Alyssa Edwards sonda spazi inesplorati dell’animo umano.


Ad ogni modo, fino a non molto tempo fa mi ero rassegnata all’idea che in un mondo piagato da campanelli d’allarme di ogni sorta, tutto quello che l’Horror aveva da offrire a mo’ di analisi – o almeno tutto quello che veniva considerato rilevante – fosse una vampira in chador che derapa in skateboard (e come diceva il saggio, non mi sto inventando un cazzo).
Ma la prospettiva che mi aveva fatto seriamente contemplare l’idea di trasferirmi a Cuba e sputtanarmi tutti i risparmi in mojito alla Bodeguita del Medio, era che forse la chiave di lettura stava proprio in quell’esibizione di forma fine a se’ stessa, in quella mancanza di sostanza. Perche’ l’orrida realta’ era che tutti quanti eravamo finiti a fare gli addominali in mutande davanti a “The Texas Chain Saw Massacre”.
Poi per fortuna e’ uscito “Get Out”.
Quindi grazie Jordan Peele per avermi salvata da un destino da nullatenente cirrotica che sarebbe probabilmente morta divorata dai suoi stessi gatti in un vicolo de l’Havana.

“SOCIETY NEEDS TO CRUMBLE”
In realta’, i primi sentori che i tempi stessero cambiando erano cominciati ad arrivare alla chetichella gia’ qualche anno prima: dopo una tribolata anticamera a causa di certe magagne con la produzione, nel 2011 arriva finalmente nei cinema “The Cabin in the Woods” di Drew Goddard e Joss Whedon.
La pellicola diventa una instant hit tra gli amanti dell’Horror, e anche la critica la accoglie piuttosto favorevolmente. Essendo un film meta – ovvero un qualcosa sul genere, piuttosto che di genere – si presentava con regalie sugose per entrambe le categorie: i fans potevano divertirsi a scovare le innumerevoli “citazioni” Horror sparse per il film, e la critica poteva godersi un esercizio di stile ben fatto.
A differenza di “Scream” (1996) di Wes Craven, a cui era toccato l’orribile destino di essere preso molto sul serio come film Horror e pochissimo come critica sul genere e sulla societa’ dell’epoca (Wes Craven e L’Arte di Essere Fraintesi)(questa e’ una storia per un’altra volta), la natura decostruttiva di “The Cabin in the Woods” sembrava scontata: si trattava di un divertisment con una morale all’acqua di rose messa li’ giusto per rimpolpare un poco la trama.

Senonche’.
Drew Goddard era stato responsabile della sceneggiatura di una manciata di episodi di “Lost” (prima che la serie andasse nello stesso postribolo di “Game of Thrones”) fortemente incentrati sul concetto di libero arbitrio contro predestinazione.
Fino a quel momento, liberta’ vs. responsabilita’ (a livello personale), e liberta’ vs. sicurezza (a livello sociale), erano stati soggetti ricorrenti nel lavoro di Joss Whedon (da “Buffy”, a “Firefly”, a “Dollhouse”), argomenti che in seguito sarebbero stati ulteriormente ampliati e approfonditi nelle mega-produzioni Marvel da lui gestite (in particolar modo “Agents of S.H.I.E.L.D.” e “Age of Ultron”).
Tutte queste tematiche erano affluite in “The Cabin in the Woods”, fino a farlo diventare lo Stige incazzoso che va ad erodere una delle filosofie piu’ diffuse del pianeta: la nobilta’ intrinseca nel sacrificio del singolo per il benessere della comunita’.
Il famoso fricchettone di Bet Lehem amante delle lunghe passeggiate in mezzo al mare non e’ stato il primo (ne’ l’unico) ad approcciare questa corrente di pensiero, ma ne e’ l’indiscutibile poster boy, e a lui va il merito di aver plasmato la civilta’ Occidentale a colpi di altruismo ed empatia. Considerata la natura fetida che ci contraddistingue in quanto specie, un tentativo di bilanciamento del MACHECAZZ mi pare cosa buona e giusta. Ma anche le filosofie pucciose hanno il loro lato oscuro.
Come ben sanno i tenori che hanno dovuto scatarrare le tonzille nel WHY? piu’ sconsolato della storia dei Musicals, perfino il Figlio di Dio ha avuto il suo quarto d’ora di MA ANCHE NO di fronte a un destino da agnello sacrificale. E stiamo parlando di una situazione che – per come ci e’ stata narrata – prevedeva un sottile, eppur cruciale, equilibrio tra libero arbitrio e gli ordini del Boss.

La storia e’ piena di capri espiatori a cui non e’ stato garantito questo lusso, e l’aspetto sinistro del The Greater Good (The Greater Good!) non manca mai di generare questioni etiche spinose, soprattutto se a beneficiare della sofferenza altrui e’ una societa’ che conta sulla fredda sistematicita’ di tale sacrificio per poter funzionare.
A spiare sotto la valanga di mostri, e delle citazioni sfiziose, e degli ettolitri di sanguinaccio, c’e’ un messaggio forte e chiaro in “The Cabin in the Woods”: una societa’ che per salvarsi e’ disposta a sacrificare la liberta’ decisionale e il benessere di anche uno solo dei suoi individui non merita di essere salvata.
Il J’accuse! arriva dalle labbra intorpidite dalla ganja dell’unico protagonista troppo aggallina spaziale per poter essere manipolato, ed e’ una sentenza lapidaria: “Society is binding. It’s filling in the cracks with concrete. Society needs to crumble”.
“The Cabin in the Woods” e’ stato uno dei primi film di genere a vocalizzare il malessere nei confronti dell’ossessione per il controllo nella societa’ contemporanea.
A dieci anni precisi dai fatti dell’undici settembre, in un mondo in cui l’iperprotettivita’ sociale che inevitabilmente ne era seguita si era ben assestata nello stile di vita che ormai ci e’ usuale, il nostro eroe dal bong retrattile aveva lanciato l’allarme.
E meraviglia delle meraviglie, aveva trovato diverse orecchie disposte ad ascoltarlo.

LUNEDI’ PROSSIMO: Cambridge Analytica alla riscossa, tazze di tea assassine, e mostri brutti in disperato bisogno di Prozac, nella conclusione pirotecnica del malloppone infernale: FEAR AND LOATHING IN 2021 – PARTE IV